C’era una volta un’idea,
un’idea che volava spensierata nel cielo in cui vivono le idee,
pacifica svolazzava e spensierata aspettava il suo momento predestinato.
Fiduciosa sapeva che sarebbe arrivato il fuoco di un desiderio, conscio o inconscio poco le importava, che l’avrebbe trasformata nella realtà tanto attesa.
E così un bel giorno fu.
Fu così cioè che l’idea si tramutò favolosamente in un semino: un semebambina o un semebambino,
e questo, adesso, è troppo presto per saperlo.
L’incontro da tanto sperato fra i prescelti, il rotondo e lunare ovulo femmina e il suo spasimante solare spermatozoo era avvenuto, lassù, al fondo della tuba uterina, non lontano dalla cesta delle uova e ora iniziava l’avventuroso viaggio del simpatico e paffuto semino fra le ripide del lungo ruscello tubarico.
Un viaggio invero di parecchi giorni, trascorsi a lasciarsi cullare dalla corrente, farsi raccontare storie dai flutti, farsi nutrire e nel mentre diventare più grande per prepararsi ad abitare il grembo uterino.
Questo è l’unico tempo in cui lui basta a se stesso, si fa chiamare blastocisti ed è un pò megalomane, e io forse sono rimasta un pò in quello stadio..
E’ così lungo questo pellegrinaggio che ad alcuni semini capita l’imprevista sorpresa, nessuno ne ha mai saputo il segreto, di dividersi esattamente in due parti uguali, così identiche che neanche la voce si differenzierà mai.
Sono loro i semini dei gemelli identici: omozigoti perchè zigote è il soprannone scientifico del semebambino.
Altre volte invece, gli ovuli sono due perchè ci son famiglie di donne esagerare che di uova ogni taanto ne fanno ben due e poichè di spermatozoi ne arriva una valanga…voilà la creazione di due semibambini, detti eterozigoti e che possono essere di sesso diverso o dello stesso sesso essendo lo spermatozoo il portatore del genere.
Proseguiamo ora il viaggio lungo lo scorrere del tempo fra le braccia del ruscello tubarico, perchè giunge il memorabile momento in cui le complici acque posano delicatamente il semino all’inizio della incantata valle uterina e lì lo salutano augurandogli un buon radicamento!
Il cicciottello semino inizia risoluto a rotolare lungo i pendii e divertito e felice salticchia per ogni dove alla ricerca del posto giusto in cui fermarsi.
Annusa di qua e di là, fiuta, interroga gli Dei e poi si decide e si piazza fiducioso laddove sa di poter crescere sano e forte, sopra una fertile terra a cui potersi ancorare per bene.
Ora ecco la magia delle magie: essendo un semino, il semebambino, inizia a germogliare e da lui spuntano piccole radici che piano piano affondano nella terra uterina e penetrano nel rigoglioso tappeto erboso che ogni donna, ogni mese, prepara per l’avvento!
Rapidamente il fusto di questo albero bambino si fa cordone ombelicale, perchè la linfa del nutrimento e dell’ossigeno possa scorrere dalla terra madre al figlio, e viceversa.
Mentre le radici affondano per bene, grazie al progesterone che tutta la donna rallenta (sonno, nausea, stitichezza…) affinchè il muscolare corpo uterino non si senta invaso, due radici da ogni parte della base dell’albero bambino (le membrane amniotiche) si sollevano dalle altre, pur rimanendo il loro proseguimento, e si prolungano fino a incontrarsi e formare il sacco amniotico, la bolla uterina che accoglierà le acque e che entro il quinto mese aderirà completamente alle pareti uterine.
Si dicono “placenta e annessi”: le radici nella madre terra, il cordone ombelicale, le membrane e il liquido amniotico.
La placenta è l’unico organo che appartiene al contempo a due esseri insieme, la madre e la figlia/o.
I gemelli identici, in relazione al momento in cui si divide il semebemabino possono trovarsi con due placente (radici) e in due sacchi diversi (se si sono divisi durante il viaggio nella tuba) oppure (se si sono divisi dopo l’arrivo nell’utero) nello stesso sacco con la stessa placenta (ovviamente con due cordoni ombelicali diversi), oppure con la stessa placenta (radici comuni) e due sacchi diversi.
La placenta, le radici che legano la madre al figlio, cresce via via con il bimbopancia e sa fare tantissime cose: è un organo straordinario!
Fa da filtro per i germi, produce ormoni, nutre, disseta e assicura un ricambio continuo delle acque uterine che ogni 24 ore si rinnovano completamente.
Il cordone ombelicale invece si riveste di una gelatina che lo rende scivoloso ed è lungo abbastanza da consentire al bimbopancia di fare le giravolte e attorcigliarcisi senza interrompere lo scorrere del suo flusso, ma è anche corto il giusto così da non farlo scontrare col suolo nel caso la sua mamma lo partorisse poi in piedi.
Cresce il figlio e insieme crescono la saggezza placentare, fetale e materna.
Terminato il soggiorno gestazionale, il corpo si prepara per l’avventura della Nascita e uno dei primi segni dell’imminente viaggio del travaglio è l’allontanamento del polo inferiore del sacco amniotico dal collo uterino che inizia la sua trasformazione, ma questa è un’altra storia…
Fisiologicamente, in genere, le membrane si rompono (perchè sono solo le acque bibliche che “si rompono”) a fine travaglio, all’inizio del perioro espulsivo, quando la creatura si incanala e premendo sul sacco ne favorisce la rottura.
Meno frequentemente si rompono prima del travaglio stimolando dopo un pò la sua insorgenza (dalle 12 alle 48 ore dopo).
Di rado, tanto da farne un proverbio, non si rompono e la creatura nasce con la camicia, cioè avvolto da parte delle membrane come un palombaro.
Di frequente si rompono artificialmente per accelerare il travaglio, perchè di interventi inutili in nome della fretta, e senza rispetto, se ne fanno ancora troppi.
Poi finalmente e gioiosamente la bambina viene alla luce!
Rimane unita alla madre dal cordone che rimane collegato alle radici e che continua a funzionare finchè non sente che la bambina ha avviato da sè il suoi primi respiri di mondo.
Beate, la madre e la figlia si contemplano nello stupore degli inizi e da pochi minuti fino ad un’ora e più dopo, si avvia il secondo parto, il secondamento, cioè il parto della placenta.
Nel mentre è stato reciso il cordone ombelicale e lo si fa a circa 2/3 centimetri di distanza dal piccolo ventre del bebè dopo aver bloccato il cordone, oggi con una pinzetta apposita, un tempo con il filo o dei piccoli elastici.
Il secondamento, la fuoriuscita delle radici dalla terra uterina, è il momento davvero più pericoloso per una partoriente.
Immaginate di sollevare una pianticella dalla terra del vaso: eccovi la placenta con il suo fusticello/cordone e la terra con degli spazi rimasti vuoti.
La terra uterina, potente trama muscolare, si deve rapidamente serrare per chiudere quell’abbraccio amoroso di vene e arterie che ha nutrito la sua creatura e le occorrono circa due ore, tanto che persino la legge proibisce a chi ha assistito il parto di allontanarsi dalla donna essendo l’emorragia il grave rischio che incombe su di lei.
Nasce così la placenta che, in genere senza troppo dolore se non quello delle contrazioni uterine, scivola giù da sola.
In mano la levatrice raccoglie il piatto placentare, dal cui centro, dalla parte fetale, parte tutto il cordone rimasto di circa almeno 50 centimetri, e dalla cui periferia partono le membrane che hanno formato il sacco: una splendida medusa!
Il piatto placentare lo potete immaginare rotondo e ampio, una spanna abbondante, soffice e spesso almeno un centimetro, rosso purpureo.
Prende il suo nome da quelle focacce dolci che, di origine romanica, ancora oggi si preparano in molte regioni d’Italia perchè sono piatte (plax/piatto in greco antico) come la placenta cui somigliano.
Pare poi che, dal piano piatto di focaccia e placenta, derivi niente meno che la parola piacere!
E quale sarà mai il destino della placenta?
Negli ospedali finisce nell’inceneritore, cioè nella monnezza: fine disonorevole per sacre radici!
Chi partorisce (o partoriva) a casa, segue il suo sentire rintracciando usi e riti di ogni tempo e luogo: chi la sotterra piantandoci sopra un giovame albero, chi la brucia, chi la getta in mare, chi la tiene nel freezer finchè non decide il da farsi.
A qualche giorno dalla nascita il pezzo di cordone ombelicale rimasto al bebè, detto moncone ombelicale, si secca (si “mummifica”) e si stacca lasciando in memoria sul ventre la storia di un legame col paradiso.
Seguendo nuove correnti di pensiero moderno che dalla natura attingono sapienza, si può lasciare il bambino in unione con la sua placenta finchè il cordone stesso, dopo pochi giorni non cadrà da solo.
E tutti quanti vissero per sempre,
felici e contenti!